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Parti per: Timpano

Composizione: Il trovatore

Compositore: Verdi Giuseppe

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Coro di Zingari. Timpani PDF 0 MB
Wikipedia
Il trovatore è un'opera di Giuseppe Verdi rappresentata in prima assoluta il 19 gennaio 1853 al Teatro Apollo di Roma. Assieme a Rigoletto e La traviata fa parte della cosiddetta trilogia popolare.
Il libretto, in quattro parti e otto quadri, fu tratto dal dramma El Trovador di Antonio García Gutiérrez. Fu Verdi stesso ad avere l'idea di ricavare un'opera dal dramma di Gutiérrez, commissionando a Salvadore Cammarano la riduzione librettistica. Il poeta napoletano morì improvvisamente nel 1852, appena terminato il libretto, e Verdi, che desiderava alcune aggiunte e piccole modifiche, si trovò costretto a chiedere l'intervento di un collaboratore del compianto Cammarano, Leone Emanuele Bardare. Questi, che operò su precise direttive dell'operista, mutò il metro della canzone di Azucena (da settenari a doppi quinari) e aggiunse il cantabile e quello di Leonora (D'amor sull'ali rosee - IV.1). Lo stesso Verdi, inoltre, intervenne personalmente sui versi finali dell'opera, abbreviandoli.
La prima rappresentazione fu un grande successo: come scrive Julian Budden, «Con nessun'altra delle sue opere, neppure con il Nabucco, Verdi toccò così rapidamente il cuore del suo pubblico».
Interpreti di quel fortunatissimo esordio furono:
«Deserto sulla terra,col rio destino in guerra,è sola speme un coral trovator!»
La trama, oltremodo intricata e romanzesca, si sviluppa parte in Biscaglia e parte in Aragona all'inizio del XV secolo.
La scena si apre nel castello dell'Aljafería di Saragozza. Il Conte di Luna ama Leonora, dama di corte della regina, non corrisposto, ogni notte monta la guardia davanti alla sua porta nel tentativo di vederla. Mentre egli si strugge di questo amore, Ferrando, capitano delle sue guardie, racconta agli armigeri la storia del fratello minore del Conte: il bambino fu rapito anni prima da una gitana per vendicare la madre, giustiziata dal precedente Conte con l'accusa di praticare la stregoneria; la zingara (Abbietta zingara) aveva poi gettato il bambino nella stessa pira ov'era morta la madre, il cui fantasma infesta ora il castello, e per questo infanticidio i soldati ora chiedono la sua morte. Nel frattempo Leonora, confida a Inés, sua ancella, di essere innamorata di un misterioso Trovatore del quale non conosce nemmeno il nome, che ogni notte viene a cantarle una serenata col suo liuto (Tacea la notte placida). Il Conte, dopo aver origliato questa confidenza, ode la voce del suo rivale che intona un canto dedicato alla sua amata(Deserto sulla terra). Leonora esce, e confusa dall'oscurità, scambia il conte di Luna per il suo amato e l'abbraccia. Il Trovatore sorprende i due in quella posa e crede di essere stato tradito, ma Leonora gli giura il suo amore; ciò scatena l'ira del Conte, che sfida a duello il rivale e lo costringe a rivelarsi: il suo nome è Manrico, seguace del ribelle Conte d'Urgel. Leonora cade in terra priva di sensi, mentre i due uomini si fronteggiano: entrambi gli avversari riportano gravi ferite, ma è Manrico ad avere la meglio. Egli fugge lasciando in vita il Conte.
Ai piedi di un monte, in un accampamento, alcuni zingari dediti alle loro attività rallegrano il loro lavoro con canti, balli e brindisi (coro degli zingari: Vedi le fosche notturne spoglie). Nell'allegria generale irrompe una voce addolorata: svegliatasi dal suo incubo ricorrente, Azucena, madre di Manrico, racconta che molti anni prima vide morire sul rogo la madre accusata di stregoneria dal vecchio Conte di Luna (Stride la vampa). Le ultime parole della madre erano state una supplica di vendetta, così ella aveva rapito il figlio del Conte ancora in fasce e, accecata dalla disperazione, aveva deciso di gettarlo nel fuoco; tuttavia, inorridita dalla visione della madre morta, aveva confuso il proprio figlio col bambino che aveva rapito e lo aveva gettato nel rogo al suo posto. Manrico teme così di non essere il vero figlio di Azucena e le chiede di conoscere la propria identità, ma la donna si rimangia tutto ciò che ha appena raccontato dicendo di averlo solo visto nell'incubo appena concluso, e gli ricorda di averlo sempre protetto e curato proprio come quando tornò all'accampamento ferito dopo il duello col Conte. Manrico confida alla madre di esser stato sul punto di uccidere il Conte, durante quel duello, ma di esser stato frenato da una voce proveniente dal cielo (Mal reggendo all'aspro assalto). Azucena lo esorta dunque a compiere la vendetta di sua madre, sfidando nuovamente il Conte e arrivando stavolta a ucciderlo. Intanto il Conte ha fatto spargere la voce che Manrico sia morto, allo scopo di conquistare Leonora; questa tuttavia, piuttosto che andare in sposa a lui, decide di prendere i voti. Venuto a conoscenza della sua decisione, il Conte irrompe con molti soldati alla cerimonia per rapirla; in quel momento però ha inizio l'assalto dei ribelli di Urgel: Manrico, approfittando della confusione, porta in salvo Leonora.
Il Castello è stato espugnato dalle truppe di Urgel, e i soldati del Conte di Luna sono accampati lì nei pressi in attesa di sferrare un attacco per riconquistarlo. Ferrando cattura una vecchia Gitana che si aggira furtiva per l'accampamento e la conduce dal Conte di Luna, credendola una spia: in realtà è Azucena, che si aggira in quei territori spinta dalle visioni della morte di suo figlio. Costretta dalla tortura e dalle minacce, confessa di essere la madre di Manrico, nonché la stessa zingara che aveva ucciso il fratello del Conte. Questi esulta doppiamente, poiché uccidendo la zingara otterrà doppia vendetta: per il fratello ucciso e su Manrico che gli ha rubato l'amore di Leonora. Intanto, all'interno del Castello, Manrico e Leonora stanno per sposarsi in segreto e si giurano eterno amore. In quella Ruiz sopraggiunge ad annunciare che Azucena è stata catturata e di lì a poco sarà arsa viva come strega. Manrico si precipita in soccorso della madre cantando la celebre cabaletta Di quella pira.
Il tentativo di liberare Azucena fallisce e Manrico viene imprigionato nel castello dell'Aljafería: madre e figlio saranno giustiziati all'alba. Nell'oscurità, Ruiz conduce Leonora alla torre dove Manrico è prigioniero (Timor di me?... D'amor sull'ali rosee). Leonora implora il Conte di lasciare libero Manrico: in cambio è disposta a diventare sua sposa (Mira, d'acerbe lagrime). In realtà non ha alcuna intenzione di farlo: ha già deciso che si avvelenerà prima di concedersi. Il Conte accetta e Leonora chiede di poter dare lei stessa a Manrico la notizia della liberazione, ma prima di entrare nella torre, beve di nascosto il veleno da un anello. Intanto, Manrico e Azucena condividono una cella in attesa della loro esecuzione. Manrico cerca di calmare la madre, terrorizzata dal dover subire lo stesso supplizio di sua madre (Ai nostri monti ritorneremo). Alla fine, la donna si addormenta sfinita. Giunge Leonora ad annunciare la libertà a Manrico e a implorarlo di mettersi in salvo, ma quando egli scopre che lei non lo seguirà, si rifiuta di fuggire, convinto che per ottenere la sua libertà Leonora l'abbia tradito; ma lei, nell'agonia della morte, gli confessa di essersi avvelenata per restargli fedele (Prima che d'altri vivere). Il Conte, entrato a sua volta nella prigione, ascolta di nascosto la conversazione e capisce d'esser stato ingannato da Leonora, che muore fra le braccia di Manrico. Il Conte ordina allora di giustiziare il Trovatore: quando Azucena rinviene, egli le indica Manrico morente, ma pur nella disperazione la donna trova la forza di rivelare al Conte la tragica verità: «Egli era tuo fratello»: il Conte, sconvolto per aver ammazzato di sua mano il fratello, esclama «E vivo ancor!», mentre Azucena, tratta a morte, può finalmente gridare: «Sei vendicata, o madre!».
L'orchestrazione di Verdi si compone di:
L'opera include anche:
Sulla scena: